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Per capire cosa sia un “patto di comunità” si può ricorrere all’immagine dell’orto secondo il modello di San Francesco. Una scuola che “abita” un territorio, e non lo occupa semplicemente, dovrebbe curare i suoi ragazzi e le sue ragazze alla stessa stregua di chi cura sia l’orto che le erbe selvatiche che lo circondano, perché nessuno si senta privo di valore.

Ogni anno perdiamo più di 100 mila studenti, ma non vengono ingoiati da una balena, la maggior parte di loro non parte per terre lontane, continuano a vivere nelle loro case e nei loro quartieri, eppure li chiamiamo “dispersi”.

E’ un esercito visibile di adolescenti che fuggono restando fermi al loro posto, mentre dispersa sembra la comunità degli adulti. Dopo la scuola li aspetta una sfida ancora più difficile: fare una scelta sulla loro vita. Due milioni e quattrocentomila ragazzi e ragazze tra i 15 ed i 29 anni, il 27% del totale, decidono di non decidere, sono i neet.

Li chiamiamo solo in negativo: “coloro che non studiano e non lavorano”, perché non riusciamo a dire nulla in positivo per definirli, eppure sono accanto a noi e ne hanno di talenti.

Un “neet” appare come un ragazzo che decide di non sedersi a tavola quando la tavola è apparecchiata: un gesto incomprensibile che si ripete in migliaia di case.

Il nutrimento quotidiano sembra non avere senso ed attrazione, la tavola con i familiari nemmeno, e non deve essere un caso che anche i dca sono schizzati, come le sindromi di isolamento domestico e le dipendenze senza sostanze.

In questo contesto anche la scuola e l’istruzione soffrono terribilmente della capacità essere attraenti per un significato esistenziale, tanto che Edgar Morin ha suggerito di aggiungere “sapere” urgente nei curricula scolastici: la “condizione umana”, che dovrebbe essere <oggetto essenziale di ogni insegnamento. (…) riconoscere l’unità e la complessità dell’essere umano>.

Questo insegnamento della condizione umana non può ridursi, però, ad essere una nuova “prestazione” da assegnare alla scuola, essa è materia che chiama l’intera comunità a partecipare. Ma se il territorio con le sue mille aree di interdizione e la restrizione progressiva degli spazi pubblici diventa una “costruzione della paranoia”, come l’ha definita brillantemente l’urbanista Flusty, che tipo di lezione può offrire ad una scuola asserragliata? Gli spazi urbani erano quei luoghi in cui coloro che “pur risiedevano in zone diverse potevano incontrarsi faccia a faccia, avere approcci informali, avvicinarsi e sfidarsi, parlare, litigare, discordare o trovarsi d’accordo (…) facendo dei problemi di carattere generale una questione di carattere personale”.

Il patto è un incontro tra più spazi e più tempi, prova a perequare le disuguaglianze dei consumi del tempo libero e raggiunge i ragazzi e le ragazze dove vivono non dove dovrebbero essere.