La serata sull’isola passa in fretta come il vento che ha attraversato la platea durante lo spettacolo.
Siamo a cena e nella testa abbiamo ancora i racconti di Esperer: la ricerca della terra dell’abbondanza, la tragedia di Marcinelle con la storia familiare ed intima di Turi Scordo da Mazzarino, Sicilia, il respingimento della polizia francese sugli scogli di Ventimiglia e la speranza che un domani non troppo lontano i due paesi confinanti inizino una gara di accoglienza a favore degli abitanti dell’isola di Esperer.
Ma sacro e profano si fondono e mentre nei cuori ancora tratteniamo il ricordo di una storia immaginifica che ha coinvolto la piazza centrale di Lampedusa, tra le mani abbiamo un menù. Il cameriere ci invita a scegliere al più presto tra le tante prelibatezze che questa isola sa preparare. Inizia la difficile decisione, il pesce prende il sopravvento sulla tavola, ma mia figlia Sara non molla: pizza con patatine e wrustel, provo a dissuaderla ma non c’è verso. Nella terra remota di Lampedusa vede un piatto che gli ricorda il suo sabato sera a Benevento e ci si tuffa.
Finita la trattativa sulle pietanze il flusso dei nostri pensieri e delle nostre parole riprende come prima: bisogna parlarne, ci diciamo, ma cosa si dovrebbe fare di più perché Esperer non resti un’isola immaginaria? Ripensiamo alle parole dell’ex sindaco Frangipane, pronunciate con veemenza durante la conferenza stampa del mattino: non esistono migranti, esistono solo esseri umani accomunati da un unico viaggio, quello dalla culla alla tomba. Nel pomeriggio abbiamo saputo che un gruppo di lampedusani celebra i funerali per tutti i migranti ignoti, attorno alle bare lasciate anche per mesi a stazionare in un magazzino adibito ad obitorio. Si riprendono con la telecamera di un telefonino, perchè quando sarà, e se sarà, vogliono far sapere ai loro cari che il loro “Turi Scordo” non è morto in solitudine e senza una cerimonia funebre, ma officiato e accompagnato da saluti laici e religiosi.
Arrivano le pietanze ordinate a tavola ed ancora parliamo di quel senso di meraviglia che ci ha lasciato addosso Angela, la bimba dei dolci, con il suo gesto del dono, per tutti gli affamati. Iniziamo a degustare ed in quelle bontà ci sembra di capire che Esperer vive davvero su quell’isola.
C’è vita e c’è bellezza per tutti, anche per i morti.
Il giorno dopo si vola per Palermo. Esperer deve presentarsi nel cuore storico della città, alla Kalsa, in un vecchio teatro che pare abbandonato, ed invece è terra amata. Il proscenio è essenziale, le mura parlano di vita vissuta, il tetto che non ripara più dalla pioggia ci sussurra di tempi migliori.
Siamo al Teatro Garibaldi, al confine con piazza Magione. Sulla agora incolta e lasciata brada dopo i bombardamenti degli alleati le persone bevono fiumi di spritz, la musica è energetica, il caos delle auto non da tregua neanche nell’isola pedonale. Si respirà la bellezza della vitalità palermitana. Tutti desideriamo portare Esperer proprio in quella piazza e chiamare l’attenzione di tutte e tutti, ma il Teatro ci aspetta, Garibaldi è come una persona dimenticata che si apre solo per noi e non possiamo tradirlo neanche per un Magione baldanzoso. Nel buio naturale della platea trovano un posto a sedere una trentina di amici venuti per assistere all’immaginifico viaggio, sono donne e uomini dell’amministrazione cittadina, di Sale della Terra, amici della Fondazione Meno, è la famiglia di Angela Errore che segue le proposte di questa straordinaria civil servant del comune come si fa con chi ha carisma da vendere.
La luce a terra delimita lo spazio della scena, inizia la chitarra di Maurizio, poi la voce di Laura ed infine “sale” sul palco quello strano clown o pierrot o pulcinella che dirige il racconto di Esperer con assoluta maestria, è Antonio. Il pubblico segue attonito e commosso il racconto che ascolta per la prima volta. Durante il viaggio non sa se ballare o piangere, se abbracciarsi o continuare a discutere di terra e di futuro. Pulcinella chiude con la sua battuta irriverente ed il piccolo pubblico si alza in piedi ad applaudire con un fare liberatorio e convinto.
Passano una decina di minuti, attendiamo gli attori che si svestono e solo Garibaldi non si deve svestire, resta lì ammutolito e spoglio, con la sua eleganza e bellezza mozzafiato.
Noi tutti riprendiamo in mano la serata, Palermo ci aspetta con la sua cucina e non vogliamo farla aspettare. Essere viaggiatori di speranza significa anche questo: soffrire con chi soffre, gioire con le città che si fanno comunità attorno a noi.
Il viaggio riprende domani, stasera siamo abitanti di questa terra che si presenta a noi con un caciocavallo all’argentiera e già sogniamo di portare la ricetta su Esperer.
(foto di Laura Cantarella)