Condividi

Come portavoce del MEAN Movimento Europeo Azione Nonviolenta condivido questa analisi lucida e necessaria di Achille Occhetto

Se i pacifisti ed i pacificatori non si siederanno ad un tavolo di lavoro comune, il loro appello alla mobilitazione per la pace resterà un cembalo che tintinna.

Caro direttore, è con lo stesso spirito che mi ha animato al tempo della militanza nel Pci, quando fui tra i più ferventi sostenitori del dialogo con i cattolici, che oggi sento il bisogno di rivolgermi a lei spinto dalla dolorosa constatazione che l’insieme delle “forze della pace” rischia di vedere appannata la propria influenza attiva dalle nebbie di angusti interessi e da pulsioni strumentali e di parte. È fin troppo facile scorgere la trama di questo male oscuro serpeggiare nei campi opposti del centrosinistra e del centrodestra. E scorgere come si corra il rischio di fare della pace un avvelenato pomo della discordia persino tra protagonisti della stessa area politica. Questa sofferta constatazione mi spinge a pensare che bisogna fare qualcosa per “andare oltre”. Per questo ritengo che l’esigenza da lei giustamente caldeggiata verso l’urgenza di muovere con maggiore decisione nella direzione del cessate- il-fuoco e dell’apertura delle trattative di pace vada perseguita con la consapevolezza della fase nuova in cui è entrato il con-flitto, cambiando anche qualche cosa rispetto alle posizioni assunte da ciascuno in precedenza.

Ricordo subito, perché non ci siano fraintendimenti tra di noi, che già in una dichiarazione immediatamente successiva all’aggressione russa dell’Ucraina, ho ripetuto di essere per la messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa e per la ripresa delle trattative per il disarmo bilanciato, ma che, tuttavia, questo non si poteva fare incominciando col disarmare il Paese invaso, negandogli il necessario sostegno per “difendersi” e non già per sconfiggere definitivamente la Russia. Tuttavia capisco bene che quegli obiettivi di fondo verso il disarmo generale, pur non dovendo essere abbandonati, sono difficilmente realizzabili nel momento in cui la parola è affidata alle armi, nel fuoco di un conflitto di dimensioni geopolitiche incalcolabili. Oggi la priorità vitale è continuare a insistere per mantenere aperta la strada per la trattativa. Tuttavia è con l’intento di una riflessione comune che le scrivo per un impegno volto a indurre tutti a fare un passo indietro per farne due avanti su un terreno che sarà decisivo al fine di delineare la prospettiva di un nuovo “ordine internazionale”.

Mi spiego. Oggi il conflitto è in una fase di stallo. E i due principali contendenti sul campo, l’aggressore e l’aggredito, affidano l’apertura al cessate-il-fuoco alla fissazione dei rapporti di forza a loro più favorevoli sul campo di battaglia. Gli ucraini collocando l’asticella al ritiro dei russi alla situazione precedente l’aggressione. Atteggiamento del tutto legittimo, sul piano del diritto internazionale, da parte di chi è stato aggredito, a patto che si limiti “solo” all’aspirazione a liberare il proprio Paese. Vladimir Putin, da parte sua, ha fatto dichiarare ai suoi, nel cuore della cosiddetta “iniziativa di pace” della Cina, che al momento della decisione del cessate-il-fuoco, i territori illegalmente occupati dovrebbero essere definitivamente considerati territori russi, facendo così coincidere di fatto l’inizio della trattativa con la sua conclusione. Un mostro diplomatico. Questa è la situazione nella quale le forze della pace e l’iniziativa dei popoli devono operare.

Voglio anche ricordare che nella guerra di aggressione degli Usa in Vietnam la mobilitazione dell’«altra America» gridava al proprio governo « go home! » e non si limitava a condannare gli aiuti militari dei sovietici e della Cina ai vietcong. Anche oggi siamo in una situazione in cui non è sufficiente, per quanto nobilissimo, reclamare la pace e la trattativa sans phrase. È pertanto mio modesto parere che è del tutto irrealistico e privo di immediati effetti positivi, sul piano squisitamente diplomatico, chiedere al Governo italiano di abbandonare improvvisamente gli impegni già assunti dentro un’“alleanza militare” che nessuna compagine governativa, di destra o di sinistra, ha finora abbandonato. Lascio a tutti noi immaginare la situazione disastrosa in cui si verrebbe a trovare, non la presidente Meloni, ma l’Italia. L’eventuale disimpegno nell’invio delle armi, già deciso dal Parlamento, in questo 2023 avrebbe, oltretutto, scarsa rilevanza sul piano diplomatico e militare. Ciò vuol dire che non c’è nient’altro da fare che inviare le armi? Assolutamente no. Occorrerebbe, a mio avviso, spostare il confronto con il governo su un altro terreno. Indicando almeno i criteri, per un percorso parallelo di attività diplomatica, volto porre fine a questa guerra dando voce ai negoziati.

Ma quali negoziati? Credo che sia necessario sottolineare come l’esito di questa guerra non verterà solo sugli effetti territoriali riguardanti il teatro del conflitto in atto, ma coinvolgeranno gli assetti geopolitici del Pianeta e la stessa visione del nuovo ordine mondiale. Ne ha parlato la Cina, in uno dei suoi dodici punti. Non ci fidiamo delle sue reali intenzioni? Facciamo bene, ma non possiamo fermarci qui. L’Occidente non può limitarsi a sospettare. Deve rilanciare, da parte sua, il tema centrale di una sicurezza comune che tenga conto delle reciproche preoccupazioni. È su questo terreno, caro direttore, che le propongo di chiedere a tutti di fare un passo indietro, di mettere almeno per un anno tra parentesi il tema delle forniture militari, per fare un passo avanti al fine di favorire il massimo di unità possibile sulla comune visione del nuovo ordine mondiale, entro il quale collocare anche la “pace giusta” per l’Ucraina e la percezione della propria sicurezza da parte di tutti gli attori internazionali. E ciò è tanto più vitale per l’Europa. Per questo ritengo sbagliato il “mantra” secondo il quale la via della pace può essere trovata esclusivamente dai tre grandi imperi dominanti (Usa, Cina e Russia). Certo l’Europa non c’è, perché non esiste un’Europa politica. Tuttavia non ci si può abbandonare a un realismo pusillanime.

Partiti, movimenti e Nazioni sono nati nel fuoco di grandi tragedie storiche. Non dobbiamo dimenticare che il nostro Spinelli ha ideato l’idea degli “Stati Uniti d’Europa”, allora del tutto irrealista, recluso nel confino di Ventotene, attorniato dal più bestiale nazionalismo della storia dell’umanità. È pertanto sacrosanto che l’Europa incominci ad agire, rivendicando apertamente il fatto che questa è prima di tutto una guerra europea, una guerra pagata, sul campo di battaglia, con il sangue di uomini, donne e bambini europei e dalla sofferenza e i sacrifici imposti dalla stessa guerra, principalmente, alle popolazioni d’Europa. Di fronte a questa realtà non ci si può voltare dall’altra parte, fare i sepolcri imbiancati, delegare le sorti del nostro continente ad altri, per quanto più realistico possa sembrare. Temo – come lei, direttore – che se l’Europa non farà sentire la propria voce, la tregua, se ci sarà, sarà contornata da armistizi tattici, da soluzioni coreane, da accordi di Minsk continuamente violati da tutti. È tutto ciò nel quadro della sostanziale persistenza dell’attuale “disordine internazionale” dominato dai rapporti di forza tra i grandi imperi. Sarebbe la fine dell’Europa.

I Paesi impegnati a difendere l’Ucraina dalla aggressione di Putin dovrebbero avere la lucidità strategica di affrontare apertamente il problema centrale aperto davanti al mondo il 24 febbraio 2022, che è quello della crisi di tutto un vecchio sistema di relazioni internazionali che ha il suo indubbio precedente nel fallimento degli Accordi di Minsk, anche per responsabilità dell’Occidente. È con questo spirito che si potrebbe almeno tentare di offrire una via d’uscita, riconoscendo che l’ordine mondiale che avevamo alle nostre spalle è crollato, il mondo è diventato multipolare. Sono caduti i pilastri, le idee e i valori su cui si reggeva il confronto Est-Ovest. E che la vetusta pretesa cornice di sicurezza non è riuscita a prevenire la catastrofe in corso. Occorrerebbe farlo dimostrando apertamente ai russi la disponibilità a ragionare insieme sulle prospettive di un nuovo sistema di sicurezza globale, che prendendo le mosse dall’attuale epicentro della crisi, che è indubbiamente l’Europa, si allarghi, successivamente, all’Indo-Pacifico. E non come sembra fare una parte dell’amministrazione statunitense facendo prevalere le preoccupazioni per il Pacifico sulle sorti dell’Europa.

In una guerra europea il punto di partenza non può non essere che l’obiettivo della ridefinizione di un nuovo ordine europeo. Riusciranno gli Stati, e in primo luogo la Russia, a muoversi in questa direzione? Molto probabilmente no. Ma allora è qui che dovrebbe intervenire la diplomazia dei popoli. Per questo le scrivo. Al fine di lavorare tutti, con le nostre esili forze, per far fare un salto di qualità al pacifismo, un passo avanti, su un nuovo terreno di riflessione che non è più solo quello degli inizi del conflitto. È ciò vale sia per chi grida solo “pace, pace”, e chi solo “armi, armi”. In sostanza si tratterebbe di combattere le vecchie logiche nazionaliste e di potenza con lo spirito di un rinnovato mondialismo che abbia sullo sfondo una visione volta a riformare una Unione Europea aggredita dal tarlo del suo stesso nazionalismo interno, a riattivare l’Onu, abolire il diritto di veto, riconsegnare alle Nazioni Unite i poteri di intervento nelle crisi già previsti dalla Carta fondativa e mai implementati, per affidare all’Onu stessa, come è avvenuto per lo Stato dentro i confini delle nazioni, il “monopolio della forza” per ciò che concerne il rispetto della legalità internazionale, sottraendo tale funzione alle “alleanze militari”, eliminando alle radici il ricatto atomico con la messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa e muovendo verso il disarmo bilanciato.

È del tutto evidente che se l’aggressione in corso, come qualsiasi altra eventuale violazione del diritto internazionale, si fosse potuta affrontare dentro il quadro giuridico da me genericamente prospettato, “l’aggressore” non si sarebbe trovato prevalentemente nella necessità di fronteggiare una “alleanza militare” ma la “giustizia mondiale”: rappresentata dalle deliberazioni, a maggioranza, dell’Onu. Ed è altrettanto evidente che non è il richiamo alla fedeltà atlantica che può mobilitare contro “l’aggressione” gran parte dei popoli che stanno alla finestra perché storicamente sospettosi verso quella fedeltà. Io stesso non sto dalla parte dell’Ucraina perché fedele all’atlantismo, ma perché fedele alla Carta delle Nazioni Unite. E non chiedo di uscire dalla Nato, chiedo di ragionare. L o so, come ci risponderebbero i realisti, che, nella situazione data, le cose non potevano andare in altro modo. Ma non è una buona ragione per non imparare da questa guerra e per non prospettare soluzioni nuove di cui mi sono solo limitato a prospettare lo spirito, un orizzonte verso cui tendere, senza pretendere di mettere, tutti e subito, i temi della trattativa sul tavolo di una auspicabile Conferenza internazionale. Importante è cominciare a porsi le domande giuste! Mi permetta di aggiungere che l’ispirazione mondialista, che è, tra l’altro, nelle corde dell’ecumenismo cattolico, dinnanzi alla possibile catastrofe ambientale non è più un optional. Non abbiamo più tempo. Anche per questo la guerra deve finire al più presto. Nel mondo ci si sta distruggendo reciprocamente mentre è urgente che il Pianeta si faccia sistema attraverso una grande sinergia delle immense risorse scientifiche e tecnologiche e morali di cui dispone e colpevolmente gettate nell’inceneritore sanguinario della criminale guerra di Putin. Il Pianeta tutto dovrebbe concentrare le forze contro il principale nemico della nostra sicurezza: la sua possibile distruzione.

Oggi in gioco non sono le sorti della sinistra o della destra, né di questo o di quello Stato: sono in gioco le sorti dell’umanità. Solo dei leader degni di questo nome potrebbero capire che il tema di partenza di una Conferenza sulla sicurezza comune dovrebbe essere quello della comune difesa dal baratro che ci attende. Se non lo capiscono i “grandi della terra”, occorre che i popoli facciano sentire la loro voce attraverso la paziente costruzione di un nuovo e più ampio movimento per la pace e la salvezza dell’umanità.