Poche volte ho partecipato ad una liturgia “eucaristica” così potente come quella di lunedì mattina a Brovary, venti kilometri da Kiev.
Appuntamento in piazza della Libertà, martedì 13 marzo ore 12, si inaugura il Peace Village. Diciotto italiani hanno raggiunto con mezzi di fortuna il centro cittadino vicino alla capitale ucraina, viaggiando di notte, sfidando una bufera di neve ed un incidente stradale che poteva finire male ed invece sembra oggi essere un tassello insostituibile della missione del MEAN, il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta.
La notte precedente, infatti, il pulmino che ci avrebbe dovuto portare a Kiev si è schiantato contro una camionetta militare guasta che occupava l’autostrada come un muro invalicabile e non preannunciata da nessun segnale pericolo. Sarà stata la Provvidenza o la fortuna, fatto sta che di rotto ci sono tutti i vetri del mezzo e gran parte della carrozzeria anteriore. Dopo lo schianto ci guardiamo increduli, stiamo tutti bene, non siamo solo salvi, siamo completamente sani. E la Provvidenza non finisce qui, ci accorgiamo subito che a cinquanta metri si ergono come miraggi le luci di un autogrill, una presenza rarissima fino a quel momento. Non solo siamo sani e salvi, ma abbiamo anche un posto in cui ripararci dal gelo che incombe, in una notte nevosa che sembra fuori misura anche per gli stessi ucraini che la commentano alla cassa. C’è caldo, c’è la macchina dei cappuccini, ci sono leccornie di ogni tipo ed anche il wifi libero: salvi, sani, caldi e coccolati dalla fortuna.
In quel minuscolo bar notturno, aspettando per tre ore che un nuovo mezzo venisse a recuperarci per proseguire il viaggio, siamo diventati ancora più uniti di quanto potevamo immaginare all’inizio del viaggio, iniziato a Cracovia e interrotto poco dopo Leopoli. Tra di noi c’è un architetto di fama internazionale come Mario Cucinella, giornalisti del calibro di Riccardo Bonacina, docenti universitari come Marianella Sclavi e Maurizio Sasso, un’attivista sindacale di grande cuore ed allegria come Marco Bentivogli, una bibliotecaria nota in tutto il mondo, Antonella Agnoli, pezzi da novanta dell’associazionismo italiano come Maria Grazia Guida di Reti della Carità e Paolo della Rocca del MoVI, attivisti di diverse ed apparentemente distanti estrazioni, come il grande Paolo Hutter, ecologista e storico animatore delle battaglie per i diritti civili delle persone omosessuali, e Tommaso Cappelli, giovane dirigente di Azione Cattolica Italiana, psicologi di frontiera come Simone Feder, dirigenti di azienda pensionati superattivi ed appassionati come Maurizio Colace, giovani ecologisti determinati come Lorenzo Fracastoro, un grande reporter cileno e convinto sostenitore dell’economia circolare romana, come Felipe Goycoolea, attivisti dell’accoglienza “senza se e senza ma” come Massimiliano Rizzuni dal Salento, una energica e combattiva attivista del welfare culturale, Valeria Dell’Anna, una straordinaria cantante ucraina di Donetsk che oggi abita a Benevento, Tatyana, colonna del Mean, e c’è un padre di famiglia come me, con i tradizionali equilibri da mantenere tra lavoro, famiglia ed impegno sociale, ed ora incasinato anche lì a cercare una mediazione tra la scelta di continuare il viaggio oppure di fermarci a Leopoli. Sarà vanità, ma in quell’autogrill c’era un’Italia bellissima, la guardavo estasiato mentre cercava di addormentarsi elegantemente tra gli scaffali, mentre chiacchierava e scherzava alla macchina del caffè, mentre si conosceva, mentre parlava di pace e nonviolenza e ragionava sui prezzi delle merci esposte, mentre alternava letture importanti con la letture degli allergeni e delle calorie riportati in etichetta. E c’era anche la vita che straripa dappertutto, perfino durante una notte nevosa in un paese in guerra: un gruppo di 4 ragazzini da poco maggiorenni, due ragazzi e due ragazze, hanno trovato un escamotage per aggirare il coprifuoco marziale ed ora sono lì con noi a farsi il loro sabato notte, increduli di trovarsi circondati da civili italiani.
Il viaggio riprende e, senza più alcuna sosta in albergo, visto il ritardo accumulato, decidiamo di inoltrarci nelle ferite aperte dell’Ucraina violentata. Il nostro spirito guida, Serghji, ci accompagna a Hostmel, Bucha, Borodyanka, Moshun. Vuole che gli italiani “vedano”, come novello Gesù ci invita a mettere mani e piedi nelle ferite del suo corpo, suo, perché, alla stessa stregua del Whitman nel “Canto di me stesso”, Sergji non ci presenta l’Ucraina, la indossa, è nelle sue viscere e vuole che mettiamo le dita dentro. Ha l’urgenza di dire attraverso i nostri occhi al mondo intero che non è vero che tutti quegli gli ucraini sono morti invano. Entriamo nei palazzi sventrati, negli arredi spezzati, nei portoni bruciati, nelle fosse delle palazzine scomparse. Incontriamo le donne che abitavano in quelle case, stringiamo le loro mani, ringraziamo il loro cuore e la loro sofferenza, diciamo loro che siamo vicini, ma principalmente restiamo muti. Accanto, ma muti. Scattiamo migliaia di foto, vorremmo anche noi poter dire al mondo cosa stiamo vedendo e ci rendiamo subito conto che, anche se abbiamo già visto tanto alla Tv, non è la stessa cosa. Qui senti il dolore, il grido all’ingiustizia, la preghiera e la bestemmia di chi ha visto i russi entrare dentro casa con le salve dei cannoni sparate dalle strade, in un normale giorno di febbraio. Nel frattempo, il nostro spirito guida non si sazia mai della nostra vista e fino a sera, incurante della nostra notte insonne, ci porta nei boschi dove sono avvenute le battaglie più cruente, dove decine di giovani sono stati falcidiati, accenna al pianto, ma poi non si lascia mai andare del tutto, neanche davanti alle foto dei ragazzi appese davanti all’albero che ha accolto i loro corpi feriti a morte, nel bosco di Moshun. Questa discesa nell’Ade termina solo ad orario di cena, alle ventuno, ma abbiamo solo un’ora, alle 22 c’è il coprifuoco.
La notte la passiamo in un comodo albergo, al centro di Kiev. Ci siamo riconciliati con le nostre funzioni vitali, che sembravano sospese da tempo immemore, ma che in realtà sono solo trenta ore, un nulla rispetto ai tredici mesi di guerra.
Arriva il giorno dell’inaugurazione, lo spirito guida non ci ha detto un granchè, ma come sempre ha fretta di farci vedere il suo “corpo”. Questa volta è un’Ucraina festosa, coraggiosa, luminosa. La bufera neve ha lasciato lo spazio al sole che ora illumina il bianco dappertutto. A Brovary ci arriviamo in poco tempo, ciò che ci attende è sorprendente. Il sindaco della città esordisce «Abbiamo pensato di ribattezzare il Peace Village “Cittadella della pace”, perché un villaggio da noi è un luogo non tanto importante, quella che abbiamo costruito, invece, è una vera città!». E continua: “Abbiamo pensato di suddividere così le tre casette: una per l’infanzia, una per i giovani ed il co-working ed una per la socializzazione degli anziani fragili”. Meraviglia. Il progetto Peace Village pensato dal Mean e dalla mente di Mario Cucinella, nelle mani della popolazione civile ucraina supera se stesso, diventa ancora più bello di quanto avevamo scritto. Ora si va in piazza a festeggiare il varo della nascita della Città della Pace, la cittadinanza ci aspetta.
Facciamo pochi metri ed il miraggio è realtà: le tre casette che si scorgono sulla piazza sono perfette, sono disposte esattamente come Mario aveva immaginato, hanno i simboli della pace e del Mean, hanno le nostre due esortazioni esposte “More Arms for Hugs. No more wars” e “We are all Ukrainians, we are all Europeans”.
Inizia la liturgia del cerimoniale: la piazzetta circolare tra le tre casette è piena di donne, bambini, uomini adulti, anziani, persone in tuta mimetica con la bandiera della pace sulle spalle. Tutto fila liscio: i saluti istituzionali del Sindaco, del console italiano di Kiev Nicolaci, del capo del distretto militare di Brovary, poi l’emozione mia, di Mario Cucinella , di Tatyana, di Marianella, di Sergji, di Marco, di Riccardo che grida un “vi amo tutti!” dalla rampa di ingresso di uno dei moduli. Sembra tutto finito. Ma manca ancora l’ultimo gesto, quello eucaristico, manca ancora il simbolo di quel “sacramento di vita” di cui parla Leonardo Boff nel suo piccolo prezioso librettino sui sacramenti. Sergji fa avvicinare due ragazze, volti dolcissimi su tute mimetiche, portano una pagnotta. Lo spirito guida spiega: “in Ucraina quando si forma una nuova famiglia si ha usanza di spezzare insieme il pane. Oggi nasce una nuova città, dobbiamo spezzare il pane insieme”. Una ragazza porta la bandiera Mean sulle spalle, si avvicina con un sorriso che la trasfigura. Con Mario prendiamo il pane ed iniziamo a spezzarlo e condividerlo con tutta la piazza. Guardo le persone una ad una, il sorriso è impastato di lacrime, speranza e dolore si fondono nella piazza. Una donna balla tutto il tempo sventolando la bandiera come un mantello, sembra felice, la abbraccio per far festa con lei, con superficialità, si avvicina e mi sussurra nell’orecchio “YA z Luhans’ka”, sono di Lugansk” e scoppia in pianto.
La festa è finita, un vecchietto vuole giocare con me, come italiano, e grida forte e baldanzoso “Mussolini, Hitler, Putin!” con un accentuato pollice verso. Sembrava voler giocare, mi avvicino per dire anche io “Putin ho home!” baldanzoso come lui, ma un attimo dopo si emoziona e con lo stesso muso di un bambino che trattiene a forza le lacrime, mi saluta camminando e piangendo. Avrei voluto stringerlo fortissimo, ma era come un angelo, imprendibile.
Il pane ci ha unito, più di ogni altra esperienza. Ha unito in una piazza sofferenza e gioia, la resistenza valorosa dei militari e degli atleti e la restanza umile delle persone comuni, di chi non vuole abbandonare la propria terra, ha unito noi italiani brava gente, scherzosa, generosa, operosa e fantasiosa con l’anelito di democrazia e di libertà di un popolo che ci guarda con santa invidia per i privilegi che abbiamo mentre lui è costretto a difendersela con le armi. Il pane ci ha trasformato, non eravamo solo italiani, non eravamo solo europei o solo ucraini, eravamo un unico popolo, un’unica anima. Il Peace Village, la Città della Pace aveva appena visto accadere il suo primo miracolo. Altri ne seguiranno, ora ne siamo certi. Nessuno ci da la benedizione alla fine di questa liturgia del lunedì, ma la sentiamo addosso.
Ripartiamo di sera, abbiamo la notte da affrontare sulla strada, la memoria dell’incidente ci accompagna, ad ogni curva, ad ogni frenata è lì che ci da la sveglia.
Ma dentro di noi sappiamo che una parte del pane della nostra vita quotidiana sarà per sempre a Brovary, condiviso in maniera unica ed irrepetibile in quella piazza, dove già speriamo di tornare come turisti italiani in un prossimo futuro, in un’Ucraina libera, in un’Europa diversa.