Il portavoce del Movimento europeo di azione nonviolenta, appena partito alla volta di Kiev, dove lunedì 11 si terrà la prima marcia non violenta dallo scoppio del conflitto, dice al Sir: “L’Ucraina è una terra aggredita ed un popolo che va ascoltato, tutto il resto viene dopo. Dall’ascolto possono poi emergere soluzioni creative che oggi nemmeno immaginiamo”
È partita stamattina all’alba dall’Italia per l’Ucraina la delegazione del Movimento europeo di azione nonviolenta (Mean) che promuoverà l’11 luglio a Kiev la prima Marcia nonviolenta nella capitale da quando è iniziata l’aggressione. Il Progetto Mean è nato ad aprile 2022, per favorire il dialogo tra la società civile europea, quella ucraina e quella russa, a partire dalla esigenza di manifestare solidarietà al popolo ucraino aggredito, con gesti concreti. Il Movimento è stato avviato in Italia dalla rete delle associazioni della società civile “Per un nuovo welfare”, con il coinvolgimento di più di 40 organizzazioni. Ne parliamo con Angelo Moretti, portavoce del Progetto Mean.
Mentre la guerra in Ucraina continua, c’è un grande fermento della società civile per fermare il conflitto. Come nasce il Progetto Mean e quali sono i suoi obiettivi? Chi vi fa parte?
Nasce da un’esigenza interiore, dalla volontà di non fermarci a guardare alla tv un conflitto che si svolge a due giorni di viaggio in auto da Roma, di non accontentarci che i nostri governi esprimano una solidarietà in armi, di far sentire una voce che possa essere ad un tempo solidarietà per gli aggrediti e ponte per il dialogo.
Per fare questo a marzo provammo a lanciare con l’Alleanza “Per un Nuovo Welfare” gli “abbracci per la pace”, una campagna di dialogo e di ascolto delle comunità ucraine e russe presenti sui territori italiani, attraverso tavoli di dialogo e confronto. Ma ci siamo subito accorti che il veleno della guerra aveva infestato anche le nostre città . Nonostante fino al 23 febbraio quelle comunità di immigrati dall’est vivevano in pace ed anche unite nei loro riti religiosi ortodossi, dal 24 febbraio tutto è cambiato . Molte donne, mamme di soldati uccisi da entrambi i fronti, hanno cominciato ad allontanarsi le une dalle altre, alcune per rabbia, altre per vergogna, altre ancora per rivendicare le ragioni della guerra di Putin. Insomma una distanza improvvisamente siderale, un baratro di inimicizia e di sofferenza reciproche, che ci ha fatto capire che si, questa pace ci riguarda eccome , non riguarda i governi e gli eserciti, ma tutti noi europei. Ci siamo alleati in 35 organizzazioni, abbiamo scritto i primi documenti ed abbiamo lanciato i primi comunicati stampa per chiedere al ministro Luigi Di Maio di inviare i Corpi civili di pace, dalla non risposta del Ministero, abbiamo capito che non c’era più da attendere, dovevamo muoverci noi, senza giudicare nessuno.
Quali gli obiettivi della manifestazione per la pace che state organizzando a Kiev lunedì 11 luglio?
Gli obiettivi sono due: testimoniare con la nostra presenza fisica la nostra solidarietà agli ucraini che sono vittima di aggressione; costruire attraverso i nostri corpi disarmati dei ponti di dialogo tra le società civili europee ed ucraine, che possano raggiungere anche i dissidenti russi. Abbiamo coinvolto la società civile ucraina a partire da un primo nucleo: una fondazione impegnata nelle evacuazioni, Act for Ukraine; il Seminario greco cattolico di Leopoli; il Movimento dei Focolari Ucraina. A partire da questo nucleo si sono sviluppati dialoghi con decine e decine di diversi attori, sia istituzionali sia della società civile, fino ad avere l’autorizzazione del Comune di Kiev per la prima Marcia nonviolenta nella capitale da quando è iniziata l’aggressione.
La data non è casuale, vero?
No infatti. L’11 luglio è il giorno della memoria di San Benedetto, patrono di Europa, alla cui protezione spirituale affidiamo l’esito della nostra marcia; ed è anche un giorno che ricorda un giorno tragico, la strage di Srebrenica, quando sotto l’inerzia di Europa ed Onu furono trucidati ottomila uomini e ragazzi appartenenti ad un’unica etnia presente da sempre nella ex Jugoslavia.
Avete creato un Decalogo dei principi del Mean: quali sono i suoi punti fondanti?
Il punto centrale è uno: l’Ucraina non è il palcoscenico delle nostre idee e delle nostre teorie. L’Ucraina è una terra aggredita ed un popolo che va ascoltato, tutto il resto viene dopo. Dall’ascolto possono poi emergere soluzioni creative che oggi nemmeno immaginiamo, come ci ricordava lo statista francese, primo fondatore della comunità europea, Robert Schuman.
Malgrado i ripetuti appelli del Papa, il mondo ha ripreso una corsa agli armamenti: che ruolo può avere la società civile?
Le armi per la resistenza di un popolo aggredito sono una richiesta più che legittima di quel popolo che senza questo sostegno sarebbe stato occupato e dominato in pochi giorni. Ma noi sappiamo che le armi hanno il correlato di rendere il mondo un posto più pericoloso, per cui
la prima vera azione dovrebbe essere investire nella “pacificazione competente”,
spendere ogni possibilità per un negoziato efficace, non arrendersi all’idea di una legittima difesa armata, portare il conflitto dentro il banco della diplomazia, subito. La società civile può spingere l’Europa a divenire leader dei negoziati, che oggi sembrano invece essere un appannaggio principale di Nato, Russia e Turchia.
Dai più piccoli comuni un esempio virtuoso di accoglienza: infatti, con la Rete dei Piccoli Comuni del Welcome state accogliendo profughi quest’estate: quanti sono finora?
Quando come Rete dei Piccoli Comuni del Welcome siamo andati a Medyka, nel mese di marzo, per dare una mano ai profughi ucraini, abbiamo capito subito che lo scenario di questa accoglienza era totalmente diverso da quella a cui ci eravamo abituati negli anni precedenti con le famiglie siriane e afghane o i giovani nigeriani, gli ucraini non volevano fuggire ma restare nel posto più vicino alla loro terra; non avevano alcun progetto migratorio che prevedesse l’integrazione in una terra straniera che non fosse quella di origine; gli anziani in particolare avevano piacere a restare nell’Ucraina dell’Ovest piuttosto che finire le loro vite in un paese sconosciuto. Il paradosso era che per questi fratelli e sorelle c’erano mezzi e fondi a disposizione che nessun giovane nigeriano, in fuga dalle torture libiche, ha mai potuto nemmeno sognare di avere. Ma certamente l’accoglienza doveva essere diversa. Abbiamo così immaginato un progetto di accoglienza che prevedesse in sé “il buon ritorno”, come per la favola di Pollicino, ed abbiamo organizzato le vacanze estive per dei bambini che potessero vivere lontano dalla tensione del conflitto armato almeno nel periodo estivo. I comuni hanno offerto subito la loro tradizionale accoglienza e la macchina della solidarietà è partita! Ora il primo gruppo di 78 persone, divise dalla Sicilia alla Campania, sta godendo l’ospitalità italiana ed abbiamo feedback molto entusiasti dai bambini e le loro mamme.
Ci saranno altre azioni in futuro in Ucraina se il conflitto continuasse?
Non lasceremo soli gli ucraini. Se il conflitto continuasse, noi continueremo ad essere presenti in tante e diverse forme, una su tutte, ci saranno i gemellaggi tra comuni, perché siano questi ultimi a sostenere i legami sociali e il morale del popolo ucraino e noi del progetto Mean con loro.
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