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“Una cosa è certa: il popolo ucraino non può e non deve essere lasciato solo. Essere accanto significa togliere veleno alla guerra, ma anche collaborare fattivamente perché le evacuazioni funzionino, i musei vengano protetti, il turismo riparta, i bambini siano tutelati, i giovani possano conservare la speranza di costruire un’Europa migliore di oggi”, dice al Sir il portavoce del Movimento europeo di azione nonviolenta “Oggi siamo qui a chiedere, come società civili sorelle, che l’Europa svolga fino in fondo il suo lavoro diplomatico. L’Europa sostenga l’Ucraina e prenda subito la guida dei negoziati! Nessuno deve dormire in pace finché questa terra e questo popolo verranno aggrediti. Avanti Ucraina! Avanti Europa! Avanti la pace!”. Così Angelo Moretti, portavoce del Movimento europeo di azione nonviolenta (Mean), ha concluso il suo discorso nella Manifestazione non violenta, promossa a Kiev, l’11 luglio. Gli chiediamo oggi un bilancio dell’iniziativa.

Com’è andata la Manifestazione non violenta?

Il bilancio senza alcuna enfasi non può che essere estremamente positivo, solo due mesi fa sembrava un sogno poter parlare apertamente di pace e non violenza in Ucraina, senza essere scambiati per coloro che vogliono la “resa” di questo popolo. Il grande lavoro di tessitura di rapporti di amicizia è stato fondamentale per disambiguare le parole:

abbiamo manifestato insieme, italiani e ucraini, per la pace e la nonviolenza attiva, chiedendo che la diplomazia prenda la guida del conflitto e che si arrivi subito ad una tregua.

Chi pensa che gli ucraini siano un popolo di “invasati guerriglieri”, che chiede solo armi per combattere, ora non ha più alcuna scusante per continuare a credere nei propri stereotipi: l’11 luglio gli ucraini hanno detto al mondo intero di essere un popolo ferito, disponibile a resistere fino alla morte per non cedere ad un Paese invasore la propria libertà, ma che sarebbero prontissimi a cedere la armi alla diplomazia internazionale e, soprattutto, a quella europea se questa fosse in grado di arrivare ad un cessate il fuoco.

Quanti eravate dall’Italia?

54 persone provenienti da mondi diversi, dal mondo laico e dal mondo cattolico, dal civismo e dall’impegno radicale, da reti nazionali come Azione Cattolica, Masci, Movi, Base Italia (il cui leader Marco Bentivogli è stato presente all’intera manifestazione) e Reti della Carità e da reti civiche, come “Grosseto al Centro2” e “Civico22” di Benevento. Nel gruppo era molto presente la componente di attivisti ispirati ad Alex Langer, con la guida di Marianella Sclavi e gli esperti Paolo Bergamaschi e Pinuccia Montanari, così come era presente il mondo del welfare italiano, con Simone Feder e con i volontari di Archè, attivisti di Emergency, come Luca Cisotta, e diversi rappresentanti del giornalismo di impegno sociale, con in testa “Vita Non Profit”, ma anche la giornalista antimafia Marilù Matsrogiovanni, Radio Popolare e tanti altri. Non mancavano artisti, operai e sacerdoti impregnati, come don Giacomo Panizza e fra Fedele Mattera.

Durante la manifestazione c’è stata convergenza tra la vostra proposta di pace e il sentire di chi, istituzioni e associazioni ucraine, sta subendo la guerra?

In primis vi è da dire che il linguaggio dei segni e degli slogan con cui era stata preparata la sala è stato il primo linguaggio della manifestazione. All’ingresso del comune di Kiev vi erano diversi annunci che avvisavano che nella sala “delle Colonne”, la più prestigiosa all’interno del Municipio, si sarebbe svolta la giornata del Mean, il che significa che nessuno ha più paura di pronunciare apertamente e pubblicamente la parola nonviolenza in Ucraina senza essere confuso con disertore, un filorusso o un cittadino arreso all’aggressione, come invece accadeva due mesi fa. Gli slogan: “We are all ucrainian, we are all european” e “More arms for hugs, no more wars” campeggiavano nella sala come anche le tre bandiere: italiana, ucraina ed europea.La preparazione delle diverse fasi del dialogo era contraddistinta dalla retorica, immancabile e forse anche necessaria, in un Paese con la cultura nazionale dell’Est europeo e sottoposto nuovamente alla violenza di una guerra, e così abbiamo iniziato i lavori solo dopo il suono dei tre inni e la cerimonia di ingresso del sindaco di Kiev Vitalji Klitschko ha dato a quest’ultimo uno spazio solenne di ascolto. L’intervento del nunzio apostolico, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, è stato apprezzato in maniera bipartisan da tutti i presenti, esempio di grande equilibrio, tra le ragioni della difesa e le ragioni della nonviolenza, ma anche di grande verità, sull’aggressione e la necessità di cercare una strada alternativa perché abbia fine senza altro spargimento di sangue.Gli interventi che si sono susseguiti hanno posto l’accento su congiunture importanti, la vocazione europeista del popolo ucraino, la condanna dell’aggressione e la possibilità di aggiungere la resistenza nonviolenta organizzata dell’intera società civile europea e non solo di quella ucraina. Ed è questo il punto focale della giornata:

nessuno si senta escluso da questa guerra e soprattutto da questa pace.

Se non possiamo fermarci solo ad inviare le armi per la resistenza del popolo ucraino, perché le armi non sono mai una soluzione alla guerra, neanche possiamo pensare che la soluzione sia starsene al sicuro nei nostri Paesi ad aspettare che la guerra finisca. Al processo di pacificazione dobbiamo partecipare tutti, non per procura, ma con la presenza fisica dove la guerra accade, altrimenti sarà solo la forza delle armi a parlare, ma per la nostra responsabilità di aver lasciati soli gli ucraini a combattere un nemico che ha una potenza nucleare e un esercito 4 volte più grandi.

Che clima avete trovato a Kiev? Quali sono i sentimenti che prevalgono nella popolazione?

La popolazione è certamente stanca, vive in una condizione di “sospensione esistenziale”,

tra le sirene antiaereo che scandiscono la giornata, il turismo che dopo due anni di Covid è crollato a picco, l’economia che non riparte, le piazze della capitale semi deserte. Tatyana, la mediatrice ucraina che ha accompagnato il convoglio, non tornava nella sua capitale dal 2018: quando ha rivisto la sua capitale ha pianto nel vederla così spenta e desolata. La bellissima Piazza Santa Sofia senza il passeggio dei turisti, il museo nazionale divenuto centro di smistamento di viveri, le strade e le abitazioni impoverite. Ma è un popolo niente affatto domo. Non ha alcuna intenzione di entrare nella zona di influenza russa, è forse il primo popolo che dal 1956 sta pagando questo prezzo altissimo per difendere il proprio desiderio di vedersi riconosciuta una identità europea. La tensione è alta, ma apparentemente ben gestita. Anche l’accoglienza di alcuni oppositori al governo dentro la nostra due giorni di lavoro è stato il segno di una Ucraina che lavora nel suo mondo interiore per migliorare la sua democrazia ed adeguarla agli standard Ue.

Dopo il rientro in Italia come continua il sostegno di Mean al popolo ucraino?

Una cosa è certa: il popolo ucraino non può e non deve essere lasciato solo.

Essere accanto significa togliere veleno alla guerra, ridurre il danno, prevenire che la peste diventi rancore indicibile e crudele, ma non solo. Significa anche collaborare fattivamente perché le evacuazioni funzionino, i musei e i beni museali vengano protetti, perché il turismo riparta il prima possibile, i bambini siano tutelati, i giovani possano conservare la speranza di costruire un’Europa migliore di oggi.Noi continueremo a stare accanto e come prossima azione promuoveremo i gemellaggi tra le comunità italiane e quelle ucraine: abbiamo visto che la migliore accoglienza è quella che gli ucraini dell’ovest stanno offrendo agli ucraini dell’est, senza sradicare questi loro conterranei e con il sogno di dare subito futuro al dopoguerra, senza nuove diaspore. Ed anche su questo saremo accanto.

Leggi l’intervista ad Angelo Moretti su Agensir