Il progetto europeo «Mean» con 35 associazioni italiane e il partner «Act For Ukraine». Il racconto del viaggio per costruire la manifestazione non violenta dell’11 luglio
Questo piccolo particolare «scaltro» del commercio ti riconcilia immediatamente con l’«umano» presente in ogni situazione, anche in quelle più indicibili come le guerra, che dalle nostre case in Italia sembra solo roba di muscoli e missili. Mentre si attraversano le strade in direzione Leopoli e Kiev ti accorgi che i segnali dell’indicibile sono nell’insicurezza costante, nei sacchi di sabbia che con i cavalli di frisia interrompono il tragitto sollecitando la pazienza degli autisti alla stessa stregua di ciò che accade con i cantieri sulle autostrade italiane; ti rendi subito conto che, nell’apparente normalità di un Paese pieno di traffico e con i bar pieni, un telefonino che scatta foto può essere interpretato come un atto nemico. Mi è capitato personalmente nell’equivalente di un nostro autogrill di voler girare un video per testimoniare le lunghe file dovute all’approvvigionamento razionato di benzina, e ritrovarmi quasi aggredito da un anziano signore che mi accusava di favorire i russi in quel modo.
Le due grandi città funzionano quasi regolarmente, sia Leopoli sia la capitale brulicano di una normale vita europea estiva, ai tavoli non mancano Spritz e birre artigianali fredde. Ma ovviamente manca del tutto il turismo, una sanzione ingiusta e crudele sull’economia del Paese, in una nazione emergente che faticava come tutte a uscire dalle crisi provocate dal Covid. Siamo arrivati di sera a Kiev,il 14 giugno scorso, in un albergo enorme dai tratti sovietici, i cui ospiti sono solo pochi foreign fighters e cooperantiche si incontrano la mattina a colazione o la sera a cena prima del coprifuoco. Poco dopo il nostro arrivo inizia il primo incontro con la società civile: arrivano compìti e si siedono sulle poltroncine, uno dopo l’altro, venti giovani , bei sorrisi , sguardi intensi, qualche tatuaggio, alcuni sono tanto belli da sembrare modelli e modelle.
Li abbiamo «convocati» con il nostro partner ucraino «Act For Ukraine»per parlare di «cosa fare per far avanzare la pace». Pensavamo di aver fatto una proposta folle e di suscitare qualche ritrosia, ma quei ragazzi ci restituiscono subito il senso di realtà. Hanno un gran desiderio di pace, di poter pronunciare quella parola in un gruppo discussione quale era il nostro. La mattina sono ingaggiati con convinzione nella resistenza attiva, portano garze, aiutano i feriti , supportano le evacuazioni, portano viveri e protezioni all’esercito. Il pomeriggio sono avvocati, giornalisti, blogger, commercialisti, infermieri, semplici studenti.
Teatro di famiglia
Natalia ha le lacrime agli occhi quando racconta che i suoi colleghi, gli operatori culturali della rete museale di Kiev, sono tutti su una «black list» dei russi, che vogliono uccidere chi difende la memoria della cultura ucraina. La ragazza ci chiede subito aiuto: bisogna mettere in protezione, in Europa, quanti più pezzi possibili dell’immenso patrimonio culturale, che subisce furti ogni giorno. Poi prende parola Stephan, è un giovane regista e ha fondato un’associazione di volontariato, è preoccupato perché si parla pochissimo del futuro in Ucraina: «Le munizioni finiscono – dice – e dobbiamo costruire ora il domani».
Maria, leader di una compagnia teatrale in cui lavora assieme al fidanzato Vlady, mette subito a disposizione il teatro della sua famiglia per la nostra idea, che a questo punto non solo non è folle ma è desiderata e voluta da quei giovani ucraini almeno quanto lo è da noi: portare la società civile europea in una manifestazione non violenta a Kiev, l’11 luglio, giorno di San Benedetto patrono di Europa. Torneremo qui in 150 attivisti, autorizzati dalla amministrazione comunale di Kiev, per dimostrare la nostra solidarietà e discutere del domani. Ciò che resta di questi incontri organizzativi per noi europei uniti nel progetto Mean (Movimento europeo di azione non violenta che raggruppa oltre 35 associazioni italiane) è la sensazione di fare la cosa giusta al momento giusto, soprattutto nel posto giusto. I governatori europei hanno da compiere in questi mesi una scelta tragica, quella di «armare o non armare» la resistenza ucraina, ma la società civile europea può avere una scelta in più: essere accanto, fisicamente, in modo disarmato ma non arreso.
Responsabilità pubblica
Se può esistere, come esiste, una forma di difesa «per procura»dell’Europa dagli aggressori russi, difesa fatta dagli ucraini con le armi dell’occidente, non può esistere specularmente la costruzione di una «pace per procura». In quel desiderio dei giovani di Kiev di costruire con noi la manifestazione dell’11 luglio, e chiedere insieme che l’Europa guidi i negoziati di pace, con tutte le sue forze economiche e diplomatiche, c’è una responsabilità pubblica che non può essere delegata e che la società civile europea deve assumersi: smettere di restare a guardare o di ridursi a commentare la guerra ed esserci nel conflitto, accanto agli aggrediti, con un piede nella resistenza e uno nel dialogo che dovrà avvenire anche col nemico di oggi, quando questa indicibile guerra finirà. Se l’umanità entra in Ucraina con le auto usate ancora di più deve esserci nelle forze civiche che si uniscono per il sogno europeo, quel sogno che proprio a piazza Majdan gli ucraini hanno difeso più di tutti e che ora stanno difendendo da un’aggressività disumana.
*Portavoce «Alleanza per un nuovo Welfare» e «Progetto Mean»
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