In tutti i suoi continui tentativi di cambiamento, l’istituzione scolastica a volte ricorda quei movimenti forsennati e scomposti che fanno le persone quando avvertono il pericolo di annegare. Se promuove due ragazzini che hanno compiuto un gesto orribile sbaglia, se li boccia o li espelle non fa bene comunque, se invece di “nove” mette “otto” in condotta non risolve nulla. Che fare?
E’più che comprensibile lo sconcerto che ha creato nell’opinione pubblica il nove in condotta dato ai due ragazzini di Rovigo che, nel corso dell’anno, avevano sparato contro una loro prof con una pistola a pallini, ferendola ad un occhio. Come lo speciale di Vita del mese di maggio ha bene evidenziato c’è una generazione intera in crisi di senso e se la promozione non è una soluzione, non dobbiamo illuderci lo sia la bocciatura o l’espulsione.
L’intervento del ministro Valditara che chiede di rivedere il voto a ribasso, con la speranza di riequilibrare le posizioni (tra rischio di eccessivo lassismo ed eccessiva punizione) avviene con il linguaggio della burocrazia: “Visti gli esiti della relazione degli ispettori e considerata la non corretta applicazione del Dpr 122/2009 e del regolamento di istituto, ho avvertito l’esigenza di invitare la dirigente scolastica a riconvocare il consiglio di classe, al fine di riconsiderare in autotutela le decisioni prese”. D’altronde una circolare ministeriale non può usare certo le parole della pedagogia di Martin Buber, di Edgar Morin o di don Milani. Ma il rischio serio che si corre oggi nella semplificazione del dibattito in corso è forse più alto del pericolo di reiterazione ed emulazione del gesto.
La scuola pubblica vive da decenni una travagliata stagione che però non sembra poter ricevere da una nuova norma la chiave di lettura esaustiva. L’apparato normativo della scuola di oggi appare spesso come un’istituzione di altri tempi incastrata nell’epoca delle “passioni tristi”, quei turbamenti postmoderni descritti già venti anni fa dagli psicanalisti francesi Benasayag e Schmit. In tutti i suoi continui tentativi di cambiamento, l’istituzione scolastica a volte ricorda quei movimenti forsennati e scomposti che fanno le persone quando avvertono il pericolo di annegare. Se promuove due ragazzini che hanno compiuto un gesto orribile sbaglia, se li boccia o li espelle non fa bene comunque, se invece di “nove” mette “otto” in condotta non risolve nulla. La passione triste che avvolge il nuovo universo giovanile ha un problema generale: il senso di “impotenza di fronte alla complessità del mondo”. Già nel 1930 Husserl ci avvisava che le scienze europee vivevano una profonda crisi di senso e, da allora, il “nonsense” pare essere diventata la strada maestra in tutti i corpi sociali ed anche nello stesso mondo del lavoro. I tre milioni e quattrocentomila neet, giovani che hanno rinunciato a formarsi e a cercare lavoro, non sono solo una parte della disoccupazione italiana, ma anche lo specchio di un dissenso contro il nonsenso imperante. Per l’antropologo Marc Augè è un problema di “latitudine”: il mondo con le sue infinite connessioni ed emancipazioni si è dilatato in geografia ed aspettative, ed “il problema dell’uomo post-moderno è dare un senso ad un mondo così ampio”. Per Edgar Morin il “nonsense” si supera educando “al mistero”, ripartendo dalla scoperta del valore dell’ignoranza, di socratiana memoria. Galimberti inquadra il fenomeno con i suoi studi sul nichilismo giovanile e Recalcati con il suo invito a riscoprire “un’erotica” dell’insegnamento, che punti a dare senso ad ogni ora di lezione.
Ma mentre gli scienziati, i filosofi, i docenti, i genitori, dibattono, i ragazzi sono proiettati di imperio in altre dimensioni, collegati con i loro telefonini ad app che calcolano ogni ora del giorno le loro medie scolastiche, attraverso un sistema di scoring virtuale degno di un videogiochi. Nelle app scolastiche (“classeviva”, “axios” e tante altre), la loro preparazione scolastica è valutata al pari dell’energia rimanente di un avatar in un ambiente di Fortnite. E così ci ritroviamo a cento anni da Husserl a giudicare ancora l’adeguatezza o meno del nove in condotta rispetto alla sanzione necessaria per un gesto inconsulto. Potrebbe essere arrivato il momento in cui i ragazzi e le ragazze vengano visti dal sistema scolastico solo con la loro storia personale, familiare, sociale ed aiutati a crescere per quello che sono, per le cadute che fanno, per la loro volontà di rialzarsi e di affrontare un mondo così complesso. Invece di dividerci sul voto “giusto” da mettere ai due, possiamo iniziare un dibattito sull’esigenza di mettere un “nome” in condotta anzicchè un otto o un nove? In nominis hominis dicevano i latini, il nome come sintesi della storia di un individuo.
Nella società liquida si potrebbe dichiarare una volta per tutte il fallimento del sistema di votazione numerico ed iniziare a pretendere che in tutte le scuole le vecchie pagelle o le nuove app diventino strumenti di “autolettura”, tools che aiutino i ragazzi a raccontarsi e rivedersi, a rileggere nel racconto dei docenti la propria storia di vita, le proprie sofferenze ed i propri desideri, scoprire i danni degli errori fatti e la ricerca dei talenti non ancora spesi ma intravisti dagli adulti.
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